Racconto estratto dalla raccolta La densité de l’instant di Fabienne Morales
Traduzione di Walter Rosselli
Disponibile su : https://tst.testpreprod.ch/produit/la-densite-de-linstant
Novelle
L’INTENSITÀ DELL’ISTANTE
Il mattino del primo giorno scopre il suolo come dopo la guerra, i paletti della recinzione giacciono smembrati, il granturco è decimato. Lui, della sua terra, se ne imbratterebbe il viso, la mangerebbe mescolandola alla saliva. Immersa nel mattino, la fattoria con la gronda come ciglia di donna. Stringe i pollici nelle mani che porta poi come conchiglie all’altezza della bocca, soffia. Gli occhi arrossati dal freddo, sotto il berretto; nel petto, battiti, un groppo si stringe in gola, la collera si insinua attraverso ogni muscolo, l’emozione però, lui la ricaccia. Agire per non sentire. Non è la prima volta; i tempi sono cambiati: quando c’era ancora il Pa’capitava che arrivasse il cinghiale. Non sempre da loro, del resto. Era come fare il castigamatti, l’occasione di bere un goccio dai vicini prima di prendere gli attrezzi, di rimboccarsi le maniche, anche se non era a casa nostra; faceva parte del gioco e poi, alle volte se ne stendeva uno ed era di nuovo tutto a posto. Ma da allora si è scombussolato tutto: la bestia moltiplica gli attacchi. Lascia una firma che, benché inganni tutti gli altri, lui, Louis Borgeaud, non si sbaglia. O lei o lui. Non gli lascia nessuna scelta.
La sera del primo giorno infila il giaccone, gli stivali e afferra il fucile che poi si mette a tracolla. Non sarà questo maledetto cinghiale a sbafare il mio granturco! Da un pezzo non aveva sentito quell’euforia, è eccitato come un mulo, Louis Borgeaud, all’idea di vedere la bestia accasciarsi sotto i suoi occhi, rivede la scena: gli occhi cattivi che lo sfidano, fuggono, la bestia spalle al muro, il fucile carico, la detonazione. Un po’ di saliva all’angolo della bocca, ore intere fra rovi e ramaglie, talvolta sorpreso di essere tanto agile, il più delle volte con le gambe da sessantenne, il naso che asciuga con la manica. Perlustra il bosco, militare, determinato, lo beccherà! Non ha ancor detto l’ultima parola, il Louis, non è ancora da buttare! Gliela farà vedere lui. Mica un rammollito come gli altri, quelli che dicono che bisogna vivere al passo coi tempi, che sgobbano per quattro soldi, mendicano sussidi, credono di proteggersi con recinzioni elettriche, poveri sciocchi; Borgeaud, vedrai che ci arrivi! È fiero, lui, il maestro gli aveva detto, la vanità, Louis, l’orgoglio ti perderà! Se ne frega. Non capiscono niente, sono conti da fare tra lui e la bestia. Mentre esce nella notte gelida, sopportando i rimproveri della Mam’, «Non fai bene, Louis, non è un solocinghiale, torna indietro, Louis, vieni a letto, stai uscendo matto!», lo manda in bestia, la vorrebbe battere, talvolta l’afferra, stringe le sue grinfie sulle braccia di lei, fino a imprimere grandi segni rossi sulla pelle silenziosa, grida «Lasciami in pace, lo so io cosa faccio.»
Quanto dura, questa caccia; notti intere passate a sentire questa detonazione che non arriva mai, che gli ronza nelle orecchie, che se ne ride della sua debolezza, delle giornate ad aspettar notte; le notti di battuta e di vagabondaggio, a cercare una traccia, a fiutare ogni sentiero, la nebbia che si incolla alle orecchie e appiccica i capelli alla nuca, le dita aggrappate al fucile, la voglia del colpo, il desiderio della gioia, il parlare dei pensieri che caracollano per la testa, così che talvolta non sa più cosa stia facendo, il riso della bestia all’interno del capo, dissimulata dietro ogni segmento d’ossessione; battere i piedi al suolo, ripetersi che quando la bestia crollerà ai suoi piedi tornerà tutto a posto. Con lo zucchero dell’immaginazione gli arbusti si gonfiano davanti alla fattoria, le assi del pavimento riprendono tinte dorate, fiori sbocciano sul tavolo di cucina, i colori riprendono splendore, il cuore si gonfia di gioia e di sollievo, dell’orgoglio di esserci arrivato, nonostante tutto. Alza il naso fra le cime degli alberi e guarda e si perde, quasi felice, per alcune frazioni di secondo, e se ne spaventa. Non è venuto per questo. È venuto per vendicarsi, è un regolamento di conti. Allora palpa febbrilmente il fucile, tende l’orecchio, fruga, si irrigidisce alla ricerca di un indizio, di un’idea del punto in cui si trova la pozza del fango. Immagina la bestia astuta, sorniona, che si sta organizzando per distruggerlo, demolirlo, procedendo metodicamente, calcolatrice e maligna, approfittando della notte, del suo riposo; ovvio che questo malnato cinghiale di giorno dorme! Aspetterà fino all’alba, al ritorno della bestia l’abbatterà con un colpo solo.
Da settimane la cerca; nel corso delle notti, più che cacciare erra per i boschi. Con la lampada frontale accesa si avventura nel bosco, cammina e svolta, e si volta cercando l’ebbrezza del disorientamento, l’oblio per alcune ore, perso nell’aria fredda, spegne la lampada frontale per guidarsi solo con il rumore, il tatto, toccare alberi con le mani, la scorza sotto le dita, talvolta inciampa e si sorprende a sorridere nella notte, a compiacersi con il deretano sul muschio. Abbraccia i tronchi, procede passo dopo passo, confidando solo nella pressione dei piedi sul suolo, nel loro contatto con le radici nel suolo. Si sente meglio da quando non dorme più, è ringiovanito nonostante le occhiaie viola che gli cerchiano gli occhi. Non è più proprio Louis Borgeaud, contadino vodese, la nobiltà della sua lotta lo illumina, un suo doppio si impossessa progressivamente della sua identità per abbracciarne un’altra, per trascendere ciò che è, per misurarsi alla bestia, appena appena si riconosce nella specchiera, ci guarda due volte, sorpreso da questo sconosciuto che si è intrufolato in casa sua. Quasi si sorride e liscia i capelli dietro l’orecchio con il palmo della mano. Di giorno è quello che hanno voluto loro, la vita da figlio del Pa’e della Mam’, il buon figliolo che manda avanti la masseria, che invecchia, che fra poco soffrirà di prostata, normale, si va all’ospedale ed è bell’e fatta, che fa a pugni coi conti per sbarcare il lunario, che ogni tanto dice alla Mam’andiamo a mangiare qualcosa fuori, tanto per uscire, ma che il più delle volte rimane il contadino duro che vede cambiare il mondo, il mestiere sparire, e alla fin fine la morte, semplicemente, speriamo nel proprio letto, quello in cui hanno dormito generazioni di Borgeaud, non all’ospedale, se proprio occorre la fa finita lui. Di notte, dall’arrivo della bestia, da quando gli ha saccheggiato le colture, è di nuovo una persona degna di rispetto. Di notte si riconosce, di notte non c’è il libretto giallo in cui iscrivere i pagamenti, le somme, i conti che dicono che non resta più granché, di notte rinasce un’altra forma di lui, forse ciò che sarebbe potuto essere, un avventuriero, un poeta, chissà. Allora tornano a galla tutte le vigliaccherie, un agglomerato di debolezze e di convenzioni, le parole troppo rare, le carezze assenti, il rimorso amaro, una vita passata a lottare, il brutto vizio che ha roso la sua coppia, sua moglie che lui si è messo a chiamare Mam’, i gesti vuoti di sostanza, il ritorno delle stagioni e delle feste, il tempo che spiana gli esseri. Talvolta i rovi si aggrappano ai suoi calzoni, gli graffiano le gambe, non ci fa neppure caso, si spinge avanti, realizza che si perde nelle notti, che apprezza questa vita sempre più dell’altra, che la sua vita reale perde consistenza mentre la caccia si ispessisce, assume contorni; da parecchi giorni ha smesso di mettere in tasca cartucce supplementari, spegne sempre più spesso la frontale, cammina alla cieca, abita il proprio corpo in modo diverso, oppure è il suo cervello che non si limita più alla scatola cranica, si espande verso gli alberi, il cielo, quando ispira l’aria attraverso le nari il soffio s’ispessisce, la notte entra nel corpo e ridiscende nei piedi, fila verso la terra e risale nel dorso, la sua nuca ondeggia al contatto con la forza che freme in lui, presto poserà il fucile, lo lascerà sotto le ramaglie, felice di esserne alleggerito, procederà più sciolto e concentrato attraverso gli alberi. Non dubita del percorso, ha smesso di pensare; a guidarlo sono il sangue nelle vene, il battito ai polsi, il ritmo nel petto, la deglutizione, le alternanze di spessore, di pelosità, di adunco, di muscoso, di friabile e di duro.
Quando la luna entra fra le cime, si fa scorgere poi svicola illuminando a tratti i tronchi e i ceppi, le foglie, Louis Borgeaud è preso da una spossatezza improvvisa; si ferma, posa un ginocchio a terra, una mano poi entrambe, si siede e infine si stende sul dorso. Benché sia conscio del buffo del suo gesto, alza le braccia in modo che le sue mani si trovino sopra la testa e gioca con il raggio di luna a toccare gli alberi, coprendo un occhio, poi l’altro, disegnando quadri mobili nel cielo, passando la mano destra sopra la sinistra, incrociando i pollici, mimando l’uccello, giocando alle ombre cinesi sul suo viso. Lascia che la testa riposi al suolo e dondolandola da sinistra a destra si riempie di aria notturna. Gli occhi bruciano di stanchezza, lascia che i talloni si conficchino nel suolo, le gambe si allarghino, il bacino sprofondi. Aprendo le braccia a croce, respira e trova un soffio profondo e tranquillo, dimenticato; qualcosa nel corpo di Louis si squarcia con il fruscio di un foglio di carta e nello spazio si forma uno schermo su cui si materializzano immagini, ricordi, emozioni di mezzo secolo di agricoltura vodese. Nonostante una voce familiare gli intimi di rialzarsi e di continuare la caccia, di riprendersi, lascia che l’emozione lo invada e che grandi lacrime scorrano lungo le sue gote, talvolta fino alle orecchie, facendolo ridere; il suo petto si alza e si abbassa, più tranquillo a ogni espirazione, il peso delle palpebre si impone, vuole muoversi ma ne è ormai incapace, cerca di ricordarsi perché si trova là, ma tutto il suo essere è assorbito dall’intensità dell’istante e allora, chiudendo gli occhi, cede al sonno.